Gasp, il Papu e la difficile gestione del gruppo
“Benvenuti nell’era dell’anti-innocenza, nessuno fa colazione da Tiffany e nessuno ha storie da ricordare. Facciamo colazione alle 7 e abbiamo storie che cerchiamo di dimenticare il più in fretta possibile”: l’incipit della serie televisiva Sex and the City (cui si ispira il titolo della rubrica) mi ricorda da anni di non perdere mai il senso della realtà.
Inseguiamo i nostri desideri, spesso riusciamo a realizzarli, ma non sono mai come ci aspettiamo.
Come quando non vedi l’ora di portare la tua dolce metà al pranzo di Natale, giocare a tombola, scambiarsi i regali sotto l’albero e poi … finisci per fidanzarti con il Grinch…
Questo per dire, senza voler scomodare Leopardi o Schopenhauer, che le cose non vanno mai come vorresti. Come quando, per fare un altro esempio, la tua squadra del cuore gioca in Champions League, vince a Liverpool, ad Amsterdam e tu, che per anni impazzivi immaginando queste trasferte da sogno, sei costretto ai domiciliari a causa di una pandemia.
Dove voglio arrivare con tutte queste giravolte? Che la vita è così: puoi programmarla finché vuoi, come vuoi, ma ti sorprende sempre e, spesso, si prende gioco di te con i suoi apparenti paradossi.
Credo che questa settimana anche Gasperini sarebbe d’accordo con me. Sicuramente il mister si sarebbe aspettato un clima diverso da questo passaggio di turno in Champions che coincide con la splendida vittoria all’Amsterdam Arena. I rumors di questi giorni infatti parlano di incomprensioni all’interno dello spogliatoio atalantino, anzi di un netto dissenso tra il suo capitano (con forse altri membri della squadra?) e il tecnico. Ma come è possibile che il giocattolo si rompa proprio ora, tra le notti magiche di Liverpool ed Amsterdam? Non mi pare sia questa la sede per trattare la vicenda dalla quale, però, emerge una costante: quando tutto sembra filare liscio come l’olio, quando ci sembra poter toccare il cielo con un dito, ecco che una semplice inezia diventa una miccia esplosiva capace di compromettere il meccanismo di un impianto tanto faticosamente costruito, ma solo apparentemente perfetto.
Non mi meraviglia poi tanto il tono drammatico della stampa che da una semplice lite di spogliatoio tesse un gomitolo di trame oscure e minacciose. Si sa come sono i giornalisti: riescono a cavalcare persino una non-notizia come questa. Dico solo che buon senso avrebbe voluto che l’episodio fosse rimasto nello spogliatoio. Quello che è successo è del tutto normale: liti ed incomprensioni anche aspre sono all’ordine del giorno nei luoghi di lavoro, in famiglia, per strada. E nessuno ne parla!… e a dir il vero neanche a me interessa parlarne ma mi chiedo: quali dinamiche possono pregiudicare la tenuta psicologica di un gruppo che ha dato prova di prestazioni tanto entusiasmanti?
Alleno da molti anni squadre di pallavolo: bambine, adolescenti e giovanissime con cui si vivono esperienze egualmente esaltanti. In campo e nello spogliatoio.
Che parola bellissima: SPOGLIATOIO. E’ un luogo fisico ma anche metafisico dove la squadra vive, cresce, comunica. Dove gli animi si accendono e bruciano. Dove si cade e ci si rialza. Dove si litiga, si canta e ci si abbraccia.
Mi viene in mente un aneddoto che scrisse Kareem Abdul-Jabbar, leggenda del basket NBA, nel suo libro Coach Wooden and me. Si parla delle semifinali nazionali NCAA di Lousville. Kareem giocava per coach Wooden con UCLA contro i Bulldogs. Dopo aver vinto agevolmente tutte le partite, in questa semifinale c’era una certa mancanza di energia nella squadra. Coach Wooden era molto teso e al primo errore in difesa di Bill Sweek lo tolse dal gioco. Sweek si sedette in panchina fumante di rabbia. Quando poi un altro giocatore venne espulso il coach lo richiamò ma Sweek, risentito, esternò platealmente il suo disappunto avvicinandosi al campo con passo lento, da sbruffone. Il coach reagì con un brusco “Siediti!” e fece entrare un altro giocatore. Sweek si arrabbiò talmente che lasciò la palestra, dirigendosi verso gli spogliatoi. Nonostante il parapiglia UCLA vinse e passò in finale. Ma cosa successe subito dopo nello spogliatoio degli UCLA?
“Santo cielo Bill cosa avevi in mente?” gridò il coach. “Che non avrebbe dovuto togliermi dal gioco! Solo perché davanti al mio nome non c’è scritto coach non vuol dire che non conosca la pallacanestro” Coach Wooden era arrabbiatissimo e, trattenuto dal suo staff, sembrava volersi gettare su di lui a pugni tesi. “Vuole picchiarmi vecchio? –continuò Sweek– Sembra che abbia sempre ragione lei. Ha mai pensato invece di essere lei il problema?”
A questa domanda -racconta Kareem- il coach sembrò calmarsi. Si voltò e uscì dagli spogliatoi, assicurandosi che i giornalisti fossero tenuti alla larga. Il venerdì mattina andarono tutti a fare colazione, come sempre. In quel momento arrivò il coach dicendo che voleva parlare. Sweek, inutile dirlo, credeva di essere sbattuto fuori dalla squadra. Coach Wooden iniziò il suo discorso: “Ho pensato molto a quello che Bill ha detto ieri sera e capisco che non è del tutto sbagliato. Di certo non sono d’accordo con il modo con cui mi ha espresso le sue opinioni o con il comportamento in campo, così come non giustifico la mia reazione. Ma sono felice che sia venuto fuori. Ad ogni modo -continuò– voglio che sappiate quanto sono fiero di tutti voi”. Nel dire “tutti” guardò dritto negli occhi Sweek. “E quanto sono felice di avere il privilegio di allenarvi”. A quel punto chiese a Sweek di avvicinarsi e si strinsero la mano.
Era inevitabile che un allenatore come lui avrebbe preso a cuore le parole di un suo giocatore, era inevitabile che si sentisse in obbligo di riappacificarsi, impartendo a tutta la squadra una lezione di umiltà. Altri allenatori si sarebbero sentiti in dovere di scendere in campo contro Sweek per provare a tutti chi comanda. Ma UCLA sapeva già chi comandava ed erano felici che fosse coach Wooden…
Non è mai una questione di ruoli. Non ci sono regole o meglio: ci sono, è chiaro, ma certi incendi non si spengono rifugiandosi nelle regole. Anzi spesso la chiave sta nel ribaltare qualche volta i ruoli!
Quello che fa crescere lo spogliatoio sono i singoli rapporti. Le relazioni che si costruiscono là dentro: relazioni uniche e diverse con ogni elemento della squadra. Bisogna conoscersi, chiedere “come va”, essere veramente interessati e attenti. Ascoltare. Acuire i sensi.
Bisogna mettersi sulla stessa frequenza per ballare insieme!
Credo che una delle capacità dei coach sia quella di cogliere dai momenti critici l’opportunità per crescere. Quella occasione unica che scaturisce dall’analisi delle difficoltà e che spesso sviluppa alcune esperienze e capacità come la comprensione, la comunicazione, l’accettazione dei propri limiti, il coraggio di superarli o di cogliere in questo riconoscimento l’orizzonte entro il quale coltivare le nostre scelte.
Morale della favola: possiamo vivere momenti indimenticabili e ambire alle mete più alte ma se non si colgono i lati più profondi, le aspettative, le passioni che animano la vita dei singoli giocatori e del gruppo, ogni risultato alla fine farà i conti con una realtà molto lontana dai nostri sogni.
Ma torniamo alla nostra Dea: una squadra non avrebbe mai potuto riscuotere tanti successi senza un amalgama di reciproco rispetto ed empatia. Ma, come in ogni famiglia, che passa tutti i giorni insieme sotto la pressione e lo sguardo del pubblico, è normale che si creino disaccordi. Aspettarsi che Gasperini possa tenere a bada tutti senza mai arrabbiarsi sarebbe assurdo! Meglio in questi casi dare prova di umiltà, cercando di essere all’altezza degli standard elevatissimi che lo sport richiede sempre.
Come scrisse Hemingway. “Il coraggio è grazia sottopressione” e noi allenatori dobbiamo continuamente esercitarci in questa grazia.
Antonella Leuzzi